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Ricordi

di

Ou zzu’ Jàpicu

Ero convinto che alla fine della salita finisse il mondo, avevo cinque anni e non potevo sapere ma, ben presto mi sarei reso conto che così non era.
Quando finalmente venne quel giorno in cui risalii quella stradina tenendo per mano il mio papà, mi sentii come un pulcino che si affaccia spingendosi con forza sul bordo aperto del suo guscio.
………Qualche giorno prima qualcuno era passato dalla nostra casa da poco edificata ed ancora grezza, ma non riuscii a vedere bene chi fosse perché data l’ora i miei occhi ancora assonnati non fecero in tempo a mettere a fuoco quell’immagine, intravidi solo quella sagoma allontanarsi mentre diceva : “ Acchiànati ddà n’capu ! ….Era un invito.
Avevo appena scoperto che lì in cima a quella salita il mondo proprio non finiva, anzi di fronte ai miei occhi apparve una immensa distesa di terra con grandi alberi e colture di cereali, spazi talmente estesi che non riuscivo ad abbracciare con i miei teneri sensi.
Quella stradina mi sembrava infinita quando a fatica, raddoppiando il passo, riuscivo a stento a coprire le falcate di mio padre, non si arrivava mai, ma ad un tratto il silenzio che aleggiava in quel luogo fu improvvisamente interrotto dallo scalpitio ed dal respiro ansimante di alcuni cani che ci venivano incontro. Si avvicinavano sempre di più e quando ormai erano quasi vicini a noi furono richiamati dall’autoritario fischio del padrone e si schierarono a debita distanza quasi a volerci scortare.
In mezzo agli alberi, una casetta “ essenziale “ rusticissima ma accogliente, davanti presentava immediata una veranda accennata da due colonne di cemento e da un muretto dalle finiture non tanto regolari; sotto di essa c’erano due donne, una robusta ma giovane dalla voce squillante e dal volto illuminato dal suo sorriso che esplodeva in un carosello gioioso. L’altra, la mamma, minuta ma forte e con un sorriso che lasciava trasparire le fatiche dei suoi anni.
Erano indaffarate nelle faccende domestiche, sembrava ruotassero attorno a qualcosa, qualcosa di importante, un fulcro da venerare a al tempo stesso da proteggere.
Non mi ero accorto di lui, era parte di quella casa e ne veniva quasi mimetizzato mentre, forse consapevole di questo, riusciva nel contesto a rendersi invisibile.
La sua presenza mi fu svelata dalla voce tonante, la stessa che avevo udito quella mattina al mio risveglio; quella sagoma che vidi allontanarsi era lui!
Una camicia bianca larga con segni d’usura ed infilata dentro vecchi pantaloni, calzava scarponi scuri da montagna, le mani grandi e callose, in una di esse teneva incastrata tra le dita una fumante nazionale senza filtro, il suo viso rugoso e severo. Era seduto ad un vecchio tavolo dove trovavano posto i suoi gomiti ed un grosso fucile da caccia le cui canne si trovavano in asse tra lui e ciò che guardava, ma la cosa che veramente mi colpì fù quella minuta donna che affannosamente si prodigava nei suoi compiti quotidiani ammonendo di tanto in tanto la figlia.
Quando quest’ultima iniziava a controbattere volendosi imporre ecco che il vocione metteva ad un tratto fine ad ogni diatriba riportando come d’incanto tutto alla normalità.
Un po’ più giù due scalini lunghi e larghi conducevano ad una vasca poco profonda realizzata in cemento la cui funzione era quella di accogliere la costanza di un tenue filo d’acqua che sgorgava da un piccolo tubicino di ferro incassato nella nuda terra.
“ S’aviti bisognu l’acqua a disposizione, quannu viniti è ccà. “
Non riuscivo a parlare il dialetto, la rigida educazione delle suore vietava ogni forma diversa dalla lingua Italiana, ma lo comprendevo benissimo essendo il siciliano la mia seconda lingua, e capivo anche che quell’uomo ci donava il suo bene prezioso che pur essendo scarso avrebbe da buon vicino condiviso.
Io e mio fratello ci recammo in quel luogo altre volte anche senza mio padre poiché quei luoghi ci erano familiari e non avremmo corso alcun pericolo; ma bastò poco a scoraggiarci, la distanza, la ripida salita prima e l’impervia discesa che avremmo dovuto affrontare per il ritorno sarebbe stata resa ancor più difficoltosa dai bidoncini pieni d’acqua. Qualche volta provammo a fare finta di dimenticare gli odiosi contenitori senza con ciò riuscirci perché prontamente richiamati anche se lontani un centinaio di metri.
Il non recarci spesso dal nostro vicino non pose fine a quell’amicizia che si basava su di un sentimento accorato e di profondo rispetto.
In quel contesto conobbi tanti componenti di quella famiglia numerosa, ma tutti sono solo ricordi di suoni ed ombre, tutti tranne uno visto per la prima volta una sera di quei lontani giorni, quando fummo invitati nella vecchia casa per mangiare assieme: Giacomino……
Nessuno dei padroni di casa stava seduto ad aspettare il pasto, tutti loro si prodigavano nel preparare, infornare e portare al tavolo quelle squisite pizze partorite da un casereccio e piccolo forno a legna mentre lì fermo in quell’angolo non proprio in disparte, Giacomino e la sua sedia a rotelle.
I suoi movimenti disgiunti, con i quali partecipava ai giochi di noi fortunati, mi fecero tanto pensare sia alla sua condizione che al grande amore che riceveva dai suoi genitori o da chi si accorgeva, quando gli ripulivano il viso e la mani dalla sua stessa bava.
Gli occhi no, quelli non si bagnavano, né chiusi né sbarrati ma semplicemente sorridenti tanto più quando io, estraneo alla famiglia, mi avvicinavo per parlargli.
Erano momenti di felicità per quell’angelo di Dio imprigionato in un fascio di rovi, qualora si trovava con chi ne capiva il disagio ed incurante di questo lo coinvolgeva in attività per lui difficili, fornendogli non indifferenti stimoli per progredire.
Dopo la pizza la frutta: gigantesche angurie galleggiavano nella vasca i cui sfoghi tappati il giorno prima, avevano permesso il suo riempirsi per ospitare e rinfrescare i succosi frutti, dalla polpa rossa fresca e piena di semi che noi ragazzini sputavamo fuori gareggiando, Giacomino no, quelle cose non poteva farle ma ci guardava e gioiva per noi.
Quella giornata finì, non ce ne furono altre, il tempo passava ed ognuno di noi si preparava al futuro, andavamo avanti con l’età, qualcuno di noi cresceva e qualcun altro invecchiava, c’era chi nasceva e chi moriva, e fu proprio così che “u zzù Jàpicu “, eroso dalla malattia si disgregò come una roccia esposta alle intemperie e se ne andò, privando quella famiglia del suo carisma……..
……..Nell’agosto duemilaotto, tornando in vacanza, volli fare vedere a mia figlia che alla fine della salita non finiva il mondo ma, non riuscii a farle vedere quei campi coltivati con grandi alberi perché nel corso degli anni erano stati sostituiti da erbacce o tracce di cespugli bruciacchiati.
Sconsolato dalla metamorfosi di quei luoghi diedi appena un’altra occhiata dopo la quale tornammo indietro.
Qualche giorno dopo, mio fratello volle mostrarle una vecchia casetta in pietra che si trovava non molto distante dai quei luoghi.
Trascorso qualche minuto mi feci forza e li raggiunsi, manifestando l’intenzione di condurli verso quella piccola e modesta casetta che durante la mia infanzia mi diede tante emozioni.
Da quella costruzione che mia figlia aveva descritto come la casa delle streghe, e che sinceramente dall’aspetto sembrava esserlo, c’era qualche centinaio di metri da percorrere per arrivare alla seconda meta.
Nelle sue lamentele sentivo le mie di allora, mentre inconsciamente davo a lei le stesse risposte che allora mi dava mio padre.
Mio fratello, poco più piccolo di me, si fece trarre in inganno credendo che una casa nei pressi fosse quella che cercavamo ma io sapevo che non era così, andammo avanti e anche se qualcosa nel contesto era cambiato la direzione era senza dubbio quella.
Mentre ci avvicinavamo nessun rumore di animali anche se io avvertivo degli avvicinamenti forse rispolverati nelle mente dal passato ma nessun richiamo da parte di nessuno, persino ripercorrendo il vecchio pergolato.
Era tutto come allora, la casa, la vasca con il suo piccolo tubo ricoperto di muschio, ma le sedie girate sopra il tavolo sottolineavano che nessuno viveva più in quella casa come allora, cercai di spiegare a mia figlia l’importanza di quei posti la cui vista mi riportava indietro nel tempo quando ero piccolo come lei, ma lei, bimba del ventunesimo secolo, con la mente piena di belle cose colorate vedeva quel posto solamente come qualcosa di vecchio mentre voleva solo tornare indietro per riprendere i suoi giochi.
Era la prima volta che fui felice di lei nel vederla allontanarsi da me, e mentre si dirigeva verso mio fratello già lontano forse per lo stesso motivo riuscii a liberare qualche lacrima.
Ero rimasto solo, solo con me stesso, quanto basta per combattere inutilmente la commozione mentre mi guardavo attorno con gli stessi occhi di allora riuscendo ad intravedere “u zzù Jàpicu“ seduto al suo tavolo con la sigaretta tra le dita, non più intento ad osservare il suo territorio ma semplicemente sorridente e serenamente compiaciuto, forse felice di quel mio ritorno con una figlia della stessa età che avevo allora……

MARCELLO

Lettera pubblicata il 5 Aprile 2012. L'autore ha condiviso 27 testi sul nostro sito. Per esplorarli, visita la sua pagina autore .
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Categorie: - Famiglia - Me stesso

La lettera ha ricevuto finora 4 commenti

  1. 1
    Phil95 -

    Bellissima lettera, complimenti per il modo di scrivere!
    Davvero molto commovente!
    Grazie della piacevole lettura!

  2. 2
    MARCELLO (cico) -

    Grazie, ho scritto tanto in questi ultimi anni quasi volessi lasciare un segno del mio passaggio.
    Sono contento di essere apprezzato nel trasmettere le mie emozioni.

  3. 3
    Phil95 -

    Mi sembrava quasi di leggere una fiaba d’altri tempi, talmente mi è piaciuta!
    Ancora una volta, molto apprezzato e avanti così!

  4. 4
    Phil95 -

    Bé, penso proprio che il segno lo hai lasciato!

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