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Recruiter

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Recruiter, head hunter, feedback, problem solving, skills, proficient, proattività. Ecco, partiamo da qui.

È prassi oramai radicata che siano i candidati a ricevere e subire il feedback dei recruiters mentre non è vero il contrario, ossia che siano proprio I concorrenti a poter valutare l’operato degli head hunters, I quali fortunatamente non sono stati ancora convertiti in algoritmi digitali e quindi, conservando tutta la loro imperfezione umana, rimangono soggetti all’errore ed al miglioramento. Un limite questo che sa di grande sfida.

La prassi invalsa oggi a priori all’interno del panorama della piccola e media imprenditoria italiana – vera spina dorsale dell’economia nazionale sempre più dimenticata – importata dall’estero e qui adottata secondo criteri sperimentali contraddittori, perché anacronistici oramai persino negli stessi paesi d’origine, trova comunque piena attuazione nella rimodellatura della vecchia figura dell’addetto alla selezione del personale ovvero il recruiter. Attraverso gli spazi digitali dedicati al lavoro ed al reclutamento del personale aziendale, questa curiosa nuova figura ribattezzata nel nome del libero mercato globale, promuove suo malgrado un modus operandi delle risorse umane improntato alla proattività, al problem solving, alla capacità di lavorare in team; modus operandi che trova la sua espressione più compiuta nell’uso barocco di anglicismi all’ultimo grido in ogni annuncio di lavoro presente sulla Rete. Applicando i criteri selettivi di un paradigma psicologico sperimentale piegato, come al solito, all’implementazione nella società di un rigurgito ideologico altrove oramai spogliato di ogni suo potere illusorio e barricato pericolosamente nei bastioni della speculazione finanziaria a tutto spiano, è nella predizione ovvero nella stima del risultato raggiungibile nel futuro inserendo un candidato, che il recruiter moderno dà prova di tutta l’ingenuità della sua nuova veste funzionale. Non che la comprensione delle capacità peculiari effettive e potenziali di un candidato da parte dell’addetto alla selezione non sia importante, anzi; è il parossismo barocco della terminologia impiegata al fine di distogliere l’attenzione dall’unico problema concreto, a far sorridere di gusto chi si sofferma ad osservare con un po’ di attenzione questa frenesia di rarefazione logica che si ammanta di importanza.

Infatti, così come un unico insieme di regole tecniche – nel nostro caso squisitamente economiche – non può mai essere valido per ogni ambiente produttivo – nel nostro caso la nostra cultura peculiare -, allo stesso modo la precarizzazione del lavoro dipendente, del welfare sociale, del comparto produttivo medio e piccolo, del settore pubblico e dello Stato in generale, inficia in partenza ogni tentativo logico volto a giustificare la riforma strutturale degli assetti sociali sull’idea economica propugnata capziosamente dai neofiti ingenui e dagli apologeti esperti del neoliberismo oltranzista in perenne conflitto di interessi. In un’orgia di deregolamentazione totale, di contratti a termine liberalizzati, tutele e poteri sindacali ridotti al lumicino, esperimenti contributivi disperati e fittizi, contributi pensionistici intrisi di alchimia, limiti di età lavorativa arrotondati unicamente per difetto, riqualificazioni delle risorse produttive impossibilitate – in Italia se hai più di trenta anni e cerchi ancora lavoro per le stesse ragioni per cui il recruiter è stato reinventato, sei oramai da considerare improduttivo, non ricollocabile, inefficiente, finito, mentre in America, patria del modello che qui è sbarcato sotto vesti stracciate e ricucite alla meno peggio, un simile errore di valutazione è stato soppresso dai criteri selettivi, perché è ovvio che il percorso di esperienza di una risorsa rappresenta il miglior valore aggiunto per l’incremento dell’indice produttivo -, rimpasti continui degli assetti e delle guarentigie sociali finalizzati sempre e comunque alla redistribuzione della ricchezza prodotta dal lavoro al profitto, sulla falsariga del principio economico sfalsato del trickle down…ecco, in tutto questo marasma ordinato la nuova versione del recruiter svolge appieno quella funzione di specchio per le allodole, le cui competenze tecniche di selezione, avulse dal reale contesto normativo in cui versa il lavoro, viste nella loro nudità somigliano curiosamente ad una sub specie di deprivazione cameroniana delle peculiarità effettive di un candidato.

Nell’espletare i cinque punti cardine del suo modello selettivo di riferimento, il recruiter richiede in teoria e si aspetta in pratica che il candidato sia un soggetto calcolatore per così dire, analitico, anticipatore, innovativo, predittivo, persino controcorrente rispetto alle normative aziendali interne e non un semplice impiegato competente e versatile; e questo a prescindere dal fatto che il contratto di assunzione sottoscritto non sarà rinnovato alla sua scadenza predeterminata e nonostante soprattutto sia stato adeguato, in termini di retribuzione, di salario per intendersi, agli indici di competitività richiesti dal “ mercato “. Immagino già la faccia di un addetto al confezionamento nel settore manifatturiero con contratto trimestrale a tutele flessibili, mini asp probabile, famiglia a carico e adempienze varie del vivere quotidiano…conoscerà certamente il significato e l’importanza dell’essere proattivo! Eppure, a chiunque sarà capitato di leggere le presentazioni diffuse dalle aziende sui loro siti web come pure sui siti web delle agenzie specializzate nel reclutamento…un autentico tripudio circa l’importanza del welfare aziendale e del benessere dei dipendenti quale cardine della propria mission…divertente e di pessimo gusto al contempo.

Curiosando infatti tra le varie realtà aziendali del nostro variegato panorama economico, cio’ che risalta subito agli occhi è l’impostazione accentratrice, verticistica a compartimenti stagni, verganamente padronale, protesa non già alla valorizzazione delle risorse capaci e produttive quanto piuttosto al loro annichilimento, quasi fossero competitori interni e non valore aggiunto, broker neofiti eccezionalmente in gamba e pur sempre alla mercè dei soliti squali senior, vene affluenti da prosciugare e non da razionalizzare, conservare ed incrementare con un accurato piano di welfare appunto. Tuttavia, non si tratta solo di provincialismo consumato a ben vedere, ci deve essere una causa di forza maggiore che va al di là del semplice allineamento pedissequo al modello operativo delle multinazionali; una causa che ha radici profonde e che ha molto a che fare con la resa culturale incondizionata agli aspetti più beceri e suicidi del nostro campanilismo ancestrale, ancora vivo e strisciante nonostante i centocinquant’anni dell’unità nazionale; un campanilismo che, mentre nel nostro passato prossimo ha dato piena attuazione e dimostrazione del nostro ingegno imprenditoriale e creativo, oggi sembra essersi evoluto in una sorta di metastasi sistemica pedissequa verso quei modelli esteri completamente estranei ed inadatti alla cultura economica autoctona che col made in Italy si è imposta al mondo come sinonimo di unicità ed inimitabilità.

Senza rendersi conto o, peggio, ben consapevoli del vicolo cieco in cui si sono infilati, continuano comunque indefessi a piantare i semi della propria rovina, forse animati dalla speranza di poter usufruire anche loro alla fine delle stesse vie di fuga privilegiate e lastricate d’oro che sono state riservate a tutti quei CEO del mondo anglosassone, pionieri del nuovo modello di successo smart che ha contagiato non poco il resto del mondo occidentale ovvero, sacrificare la solidità produttiva di una realtà aziendale, finanche di una multinazionale, sull’altare dell’accrescimento esponenziale del proprio premio di produzione oltre che del proprio tfr, con buona pace di tutti per la distruzione di indotti subordinati, connessi, posti di lavoro, risparmi e persino vite umane – gli scandali bancari e imprenditoriali degli ultimi tempi sono la migliore istantanea al riguardo -. Ciononostante e al netto di ogni evidenza, il modello propugnato continua ad essere lo stesso, con ulteriori e curiose inflessioni, con mentori della leadership umanistica impegnati ad indottrinare discenti, managers, addetti ai lavori e datori di lavoro, quasi fossero profeti di un nuovo verbo, incantatori di serpenti abbigliati da Demostene, molto attenti a non seguire i precetti della buona novella, molto consapevoli degli esisti reali impliciti in questo nuovo iperuranio che illustrano con foga e dovizia di aspettative statistiche nelle aule e nelle sedi lavorative.

Così, il mio pensiero torna di nuovo alla figura del recruiter, a questo ennesimo coniglio dell’abracadabra di un capitalismo sempre più senza lavoro, e alla triste simpatia che suscita la sua situazione paradossale, incastrato tra le stesse necessità e gli stessi pericoli delle sue cavie da un lato, le melense speranze di carriera manageriale alimentate dagli incantesimi oratori di quei leaders succitati dall’altro; consapevole o meno infine, di essere solo un ulteriore congegno precario funzionale alla edulcorazione massima possibile di una ben più ampia e complessa opera di zootecnica sociale in fieri.

Lettera pubblicata il 12 Gennaio 2018. L'autore, , ha condiviso solo questo testo sul nostro sito.
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Categorie: - Lavoro

La lettera ha ricevuto finora 2 commenti

  1. 1
    Yog -

    Testo ben scritto, ma il contenuto è clamorosamente un deja vu.
    Vabbè, hai ripetuto le solite cose, ma la conclusione qual è? Vuoi che impicchiamo i recruiter ai lampioni di via Saterna? O che li anneghiamo nel Membro, le cui dolcissime acque bagnano Vergate dove abita mi’ cuggino? Basta che lo dici e poi vediamo di mettere in piedi qualcosa.

  2. 2
    Teodora -

    Sacrosante verità.
    Una penna preziosa la tua.
    Ad maiora semper

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